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MANFREDO BERTINI Nato nel 1914 a Montecarlo (Lucca), da genitori insegnanti elementari, si trasferì a Viareggio, dove conseguì la maturità al Liceo Classico ”Carducci”, iscrivendosi poi all’Università di Pisa. Coniugato con un figlio, era noto nell’ambiente cinematografico per le sue competenze di tecnico della fotografia e del montaggio. Fu tra i primi animatori della Resistenza versiliese, mostrando notevoli capacità organizzative. Sfuggito ad una retata fascista il 5 marzo 1944, svolse un ruolo determinante nell’attività della missione “Radio Rosa”, di cui era a capo la cognata Vera Vassalle. Il 10 giugno 1944, insieme a Gaetano De Stefanis, attraversò le linee del fronte, raggiungendo prima Napoli e poi Brindisi, dove svolse un corso di addestramento per entrare a far parte del Servizio Informazioni. Nei primi giorni d’agosto i due, come agenti della missione-radio “Balilla I”, vennero paracadutati in Val Tidone, sull’Appennino di Piacenza , presso la Divisione “Giustizia e Libertà “, comandata da Fausto Cossu. In breve tempo riuscirono a organizzare nella zona un’efficiente rete informativa e di collegamento, potenziata nel settembre con l’invio della missione “Balilla II”, di cui facevano parte il cognato di Manfredo, Carlo Vassalle, e Mario Robello, già componenti della missione “Radio Rosa” in Versilia. Il 23 novembre 1944 i nazifascisti iniziarono un imponente rastrellamento nelle valli Trebbia e Tidone, che si protrasse per una settimana, con l’impiego della famigerata divisione “Turkestan”, formata da collaborazionisti calmucchi. Durante i combattimenti, il comando partigiano, la sera del 24, si fermò in una casa nella zona di Pecoraia, dove fu vanamente tentato un collegamento radio con gli Alleati. Da giorni, Manfredo lamentava forti dolori per una grave ferita ad un braccio, che lo aveva debilitato per la mancanza di cure adeguate, e per evitare di essere di ostacolo ai compagni, che non l’avrebbero mai abbandonato, decise di togliersi la vita. Così il partigiano Gino Bongiorni ricorda gli ultimi momenti di vita di Bertini:”Verso le ore 22 del 24 novembre Maber compì un ultimo tentativo per riuscire a comunicare con la V Armata americana. Uscimmo dal comando e raggiungemmo un vicino castagneto mi arrampicai su un vicino castagno e fissai l’antenna della radio, ma un colpo d’artiglieria del nemico interruppe la corrente e dovemmo ritirarci in casa. Il comandante Maber era avvilito e imprecava contro gli Alleati. Se ne stava seduto di fronte a me tutto preso dalla sua angoscia, guardando come trasognato le fiamme che si agitavano nel camino. Fuori nevicava e faceva un freddo cane. Maber non si lamentava più per il dolore al braccio, pareva che non lo sentisse più tanto era soverchiato dalla preoccupazione per quanto stava accadendo e verso cui si sentiva impotente. Io scrissi un biglietto che volevo far recapitare alla mia famiglia tramite un contadino che era lì con noi. Quando ebbi finito di scrivere, Maber, che per tutto il tempo era rimasto a testa china senza pronunciare una parola, alzò improvvisamente la testa, mi fissò con intensità e mi chiese di prestargli la penna. Poi prese la valigetta che aveva vicino e che conteneva i piani di trasmissione e documenti vari, se la posò sulle ginocchia e cominciò a scrivere. Quando ebbe finito, si alzò e uscì, lasciando due fogli scritti sulla valigetta. Tentai di seguirlo, ma mi fermò dicendomi: “Mi allontano per pochi minuti, tu stai pure in casa che fuori fa freddo”. Non insistetti, pensai che si recasse fuori per un bisogno e tornai a sedermi presso il camino. Trascorsero pochi minuti e improvvisamente fui scosso da uno scoppio molto vicino alla casa. C’era con me pure Gino il Francese (il partigiano Gino Caldino). Ci guardammo stupiti e allarmati, pensando che il nemico fosse giunto già sotto casa. Poi insieme ci precipitammo fuori, chiamando a gran voce Maber, ma non ricevemmo risposta. Guardammo tutto attorno, temendo che il nemico fosse lì vicino, ma non scorgemmo nulla, si sentiva solo l’artiglieria che continuava a tirare sulle nostre posizioni. Allora ci inoltrammo verso il castagneto in direzione del punto dove poco prima avevamo tentato di effettuare la trasmissione. Proprio lì, alla luce di una lampadina a mano, scorgemmo il corpo di Manfredo orribilmente mutilato della testa e del braccio sinistro. Il nostro Manfredo Bertini si era fatto esplodere una bomba a mano, una Sipe, sotto il mento”. Le due lettere scritte da Maber, una al comandante Fausto Cossu, l’altra al figlioletto, rivelano le motivazioni del suo tragico gesto: “Maber, alias
Manfredo Bertini, a Fausto Comandante della Divisione "Giustizia e
Libertà" da Groppo, 24 novembre 1944 “Date le mie
condizioni di salute, veramente pessime, a seguito della ferita ricevuta
tre mesi or sono, sentendomi incapace a proseguire con mezzi propri,
anche per la fatica sostenuta durante la giornata di oggi e d’ieri, sono
costretto a fare quello che sono in procinto di compiere, per consentire
agli altri componenti la missione di mettersi in salvo e continuare il
lavoro. Sono certo infatti che la fatica che li attende i prossimi
giorni nel tentativo di mettere in salvo sé e gli apparati sarà tale da
non consentire la cura del sottoscritto; e sono certo d’altra parte,
dati anche i rapporti di parentela e di stretta amicizia che mi legano
con i componenti le missioni Balilla I - Balilla II, che per nessuna
ragione al mondo, diversa da quella che io stesso sto per procurare, i
detti componenti abbandonerebbero il sottoscritto. Giuro di fronte a Dio
che la mia di stanotte non è fuga e questo desidero sappia mio figlio. Alla sua memoria è stata concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare. |
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